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Il fidanzato delle ragazze (voce di Andrea)

Leonarda possedeva l’irrequietezza delle forme. Non riusciva a nascondere la sensualità del suo corpo, malgrado lo scudo di maglioni messi a strati, con eleganza, uno sopra l’altro.
Il suo stile nel vestire anticipava l’attesa di sbucciarsi come un frutto, anziché spogliarsi, la sera.
Questo era il suo modo di indugiare nella ricerca degli amici o del rapporto perfetti, da cui valesse la pena farsi mangiare.
Quella sera, davanti alla sua pizza di compleanno, con la tavola imbandita di persone care, mi disse che nel gioco della coniugazione dei verbi, amava l’Imperfetto, perché nulla dava l’idea della perfezione come un Imperfetto messo al posto giusto.
Così anche nella mia vita, pensavo io, rincorrendo col pensiero le mie dilette incoerenze.

(...)

A scuola il professore di lettere credeva che copiassi i temi da un ipotetico libro dei temi.
Mi obbligava a fare il compito nel banco solitario vicino alla lavagna, togliendomi la dignità e anche il vocabolario; nonostante questo, quando lo correggeva, mi guardava lo stesso con sospetto.
Diceva che i miei scritti non erano in linea con la mia età e con il livello scolastico, erano troppo maturi. Mi infastidiva il fatto che non mi credesse, però sotto sotto, mi sentivo lusingata. Significava che avevo il dono di suonare le parole ad orecchio. Ero un disastro in grammatica, storia e matematica ma mi esprimevo in scrittura come con la musica, ad orecchio.
Il prof non leggeva dentro le righe, vedeva solo che la forma non corrispondeva ai suoi canoni limitati. Vedeva l’involucro esterno dei miei pensieri senza capire che, in realtà, era amore per l’introspezione. Ricerca di equilibrio interiore prima che sintattico.

Quando ero perplessa suonavo, per ore, al buio della mia cantina rivestita da antichi contenitori grigi, che un tempo avevano ospitato uova. Non ricordo chi mi aveva detto che quel particolare tipo di confezione in cartone assorbiva i rumori, ma salvavano davvero i sonni del mio vicino.
E così il suono che producevo nel Sax era solo mio, un soliloquio rilassante come un momento di autoerotismo. Un regalo di piacere trasparente, quando hai bisogno di comunicare solo con te stesso, nonostante il mondo.
Quando ero perplessa scrivevo, anche.
Resoconti di viaggi che ancora non avevo fatto e di vite che ancora non avevo vissuto.

(...)

Ero su un grande aereo che stava sorvolando un deserto arido e assolato.
Dappertutto c’era luce accecante e avevo i timpani chiusi dall’altezza.
Non ricordavo dove stessi andando, né perché ci stessi andando. Facevo un grande sforzo per dare un significato a quel mio viaggio, cercavo di focalizzare nella memoria il motivo, il momento della partenza, ma non ci riuscivo.
Non c’erano altri passeggeri, il pilota non comunicava niente, non c’erano hostess, l’aereo era enorme e desolatamente vuoto. Non osavo andare in cabina di pilotaggio e mi sentivo completamente sola, lì sopra.
Non finiva mai, non atterrava mai, guardavo fuori dal finestrino e vedevo solo sabbia sterminata e sole.
A un certo punto ho visto un piccolissimo punto in mezzo al deserto.
Ho strizzato gli occhi per metterlo a fuoco e ho riconosciuto Caterino in costume da bagno che salutava verso l’alto con una mano e con l’altra teneva il mio Sax, con i piedi affossati nella sabbia. Lo suonava e potevo addirittura sentirne la musica.
Che strana euforia! Ho urlato verso la cabina di atterrare subito ma non ho avuto nessuna risposta. Allora mi sono affacciata e, al posto del pilota, ho visto un manichino, di quelli che mettono nei negozi di abbigliamento da uomo, con le braccia rigide piegate e la faccia dipinta.
Sono corsa al mio posto e sotto il sedile non c’era nulla che assomigliasse ad un paracadute.
Senza esitazione sono andata verso il portellone e l’ho aperto. Mi ha investito una forte ventata e il portello è saltato dai cardini, volando via.
Guardando giù, vedevo ancora Caterino che salutava e continuava a suonare.
Mi sono buttata senza pensarci troppo, per paura di avere paura. Il cuore mi è saltato in gola, non respiravo e non riuscivo a tenere gli occhi aperti.
Poi, quasi subito, ho scoperto di saper volare, di riuscire a controllare la discesa e stranamente non ne ero sorpresa.
Ho iniziato a volteggiare nell’aria con strane acrobazie e sono atterrata delicatamente vicino a lui, che ha smesso di suonare e mi ha sorriso.
In quel momento mi sono accorta che il fondo non era sabbia ma una morbida moquette beige e intorno c’era una foresta rigogliosa, verde e selvaggia.

Risveglio asciutto.

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